Marco Pili ( Nurachi, 1959 ) studia ad Oristano all’Istituto d’Arte e si diploma nel 1977, è stato allievo di Antonio Amore.
Forse bisogna partire dalla terra per ragionare sulle opere di Marco Pili.
Pittura degli elementi naturali, pittura materica di fuoco, acqua, vento e terra: Marco Pili dà forma all’informe e dipinge con tutto quello che si disperde, che è impalpabile e inafferrabile. Sempre in cerca di nuovi e inattesi equilibri cromatici e formali, assembla e manipola materiali eterogenei. Terra setacciata, tritata, mescolata, impastata con colle e stratificata. Terra che ha sempre il colore della terra. E poi sangue di bue, stoffe e pane carasau, ora bruciato, ora sommerso di resine, colore o cera. Partendo dagli assemblages e dai collages/decollages di matrice dada-surrealista, dai Sacchi, dai Cretti e dalle Combustioni di Alberto Burri, Marco Pili dà il via a un’indagine, scientifica e poetica assieme, sulla forma e sul colore della materia. Pazientemente controllata e manipolata dall’idea e dalle mani dell’artista, la materia viene a costituire il quadro. -È- il quadro. E il pittore -fa- pittura e costruisce un quadro -fatto- di materia. Sopra tele assemblate con lenzuola, sacchi, carta di giornale e stracci, Marco Pili sovrappone e stratifica materie e materiali extra-pittorici, soprattutto pane carasau, polvere e terra. Negli anni ’50 del secolo scorso Antoni Tàpies, Robert Rauschenberg e Jean Dubuffet avevano trasformato il fango in pittura, ma già in piena temperie scardinatrice dada il colore era stato sostituito da polvere e terra. Marcel Duchamp aveva lasciato accumulare la polvere sul suo Grande vetro in strati di diversi spessori, al fine di ottenere, una volta fissata, gradi variabili di trasparenza e di colori; nel 1920 aveva poi fatto scattare una fotografia da Man Ray e la aveva intitolata Allevamento di polvere; ricordandogli un grigio paesaggio visto dall’alto, Man Ray alla medesima immagine aveva dato il titolo di Veduta ripresa in aereo. Polvere e terra sono legate all’origine e alla materia. Siamo fatti di polvere, è la nostra stessa sostanza e a essa torneremo. Polvere e terra sono inoltre collegate e collegabili immediatamente al divenire. Al tempo. Al suo trascorrere inesorabile e accumulatorio, all’età, all’invecchiamento, al consumo, all’usura. Notando un accumulo di polvere e di terra si deduce che un tempo è passato, è trascorso. È volato. Si può ripercorrere l’accumulo del tempo andando all’indietro, per strati, scavando nella memoria come nella terra, interpretando, ricordando, manipolando. Origine e materia. Tempo e memoria. Terra e polvere. Polvere di grano figlia della terra, impastata con l’acqua e cotta con il fuoco: il pane carasau, entrando prepotentemente nello spazio circoscritto della tela, diviene all’istante tempo congelato e memoria rappresa. Forma tattile e simbolica del lavoro della terra, della manualità e della sapienza contadina e artigiana, il suo candido strato chiazzato di nere bruciature racconta l’aratura, la semina, l’annaffiatura dei campi; il germogliare, la raccolta, la macinatura del grano; l’impastatura, la lievitazione, la cottura del pane. Terra, acqua, aria, e fuoco. Fuoco con il quale Marco Pili crea forme. Fuoco che annerisce e brucia. A volte separa materiali omogenei. Altre volte unisce materiali eterogenei in conglomerati inseparabili. Fuoco che distruggendo costruisce. Incendi guidati. E inondazioni controllate, venti indirizzati, terremoti modulati, eruzioni pensate. Niente è legato al caso: all’interno del metamorfico processo creativo che lo porta a concepire e a realizzare un’opera, l’elemento aleatorio, pur avendo una sua indubbia valenza, è messo ai margini. L’approccio metodologico e la sperimentazione tecnica risultano razionalmente controllate e sottoposte a continue e rigide verifiche e aggiornamenti. Il controllo assoluto e la piena consapevolezza delle tecniche, degli strumenti e dei materiali, lo portano a imbrigliare la casualità. È lui a scegliere e a dosare una determinata resina sintetica, che poi produrrà sul pane carasau screpolature più o meno fitte. È lui a indirizzare e a far scivolare colate di colore dalla densità variabile, che lasceranno tracce e macchie su terre più o meno permeabili. È lui che guida e sovrintende sempre la materia e i suoi effetti di azione/reazione con un supporto o con un diluente chimico. La materia è sempre in funzione di un’idea. E l’idea trova la sua perfetta realizzazione nell’incontro con una determinata materia. Marco Pili prende le distanze dagli strumenti tradizionali del pittore, dal cavalletto, dalla tavolozza, dai pennelli, dai colori. Dipinge su di un piano orizzontale, cammina intorno alla tela e lavora sui suoi quattro lati. Solo raramente utilizza il pennello: per l’esigenza di un rapporto diretto e immediato con l’immagine, in un contatto che si fa totale, la materia è stesa direttamente con le mani. Pittura non di pennellata ma di strappi, scosse, urti e giravolte. In una combinazione magica di gesto, maggiore o minore viscosità dei materiali e gravità terrestre, Marco Pili versa e sgocciola. Scuote, gira e ruota la tela. Stratifica, sovrappone e brucia. Poi squarcia e incide. Dalle spaccature dell’epidermide superficiale emergono epidermidi sottostanti, solchi, rilievi e falde inferiori, tracce, orme e impronte. Schiude e apre la superficie materica, e in parte la rimuove chirurgicamente. Fa saltare uno degli sfondi e aggiunge strati in profondità, dando talvolta nuove collocazioni e nuova vita a brandelli apparentemente inerti, ma vivi. Carne viva e sangue. E non il colore del sangue, ma il sangue del colore, e della materia. E dalla materia, come per incanto, germinano forme. Marco Pili fa sua, e a suo modo, la lezione neoplastica di Piet Mondrian. Il supporto tecnico ripete in maniera ossessiva il modulo quadrato, e sulla tela la scansione di griglie geometriche sapientemente equilibrate conferisce forme evidenti e delimitate all’informe. In uno spazio prospettico assente, Pili ricerca l’ortogonalità, l’opposizione più o meno labile di verticali e orizzontali, la distinzione di un primo piano e di uno sfondo, in perpetua assenza della presenza umana. Geometrie sovrapposte, sfilacciate e semplificate, vagamente e intuitivamente figurative, che alludono alla realtà suggerendo qualche cosa: si intravedono sezioni architettoniche, case sparse, paesi esplosi, tutti i paesaggi possibili. Quando sembra mancare ogni riferimento figurativo, spesso è una parola o una frase, è l’evocativo titolo dell’opera a creare una suggestione narrativa. Certo è che una pittura tattile di terra, sangue, pane e carta di giornale, renda inevitabilmente illusorie le nette antinomie di reale e irreale, astrazione e rappresentazione, astratto e concreto. Pittura dei contrasti e degli opposti, quella di Marco Pili, continuamente in bilico tra organico e inorganico, naturale e artificiale, microcosmo e macrocosmo. Pittura materica di trasformazioni e di passaggi: stratificazioni di superfici su superfici. Superfici che respirano, vivono e mutano. Superfici alterate e disgregate dall’azione del tempo. E dalla memoria.
Pili espone al museo Ortiz nel 2015 nell’ambito del progetto Sartegna contemporanea 100 mostre per 10 artisti con una mostra dal titolo “Incontro tra colore e materia”. Due le opere di Pili in collezione, Giacinto ricamato – tecnica mista su tela, cm. 100×100, anno 2015 e Incisioni del passato – tecnica mista e terra su tela, del 2014
Partecipa a numerosi concorsi, Arte Mondadori Milano, Trevi flash art museum , Premio terna,
Wannabee gallery Milano ecc. ottenendo numerosi riconoscimenti.
Attualmente è in corso una collaborazione con la galleria Orler ARTETIVU’di Marcon Venezia. Inoltre sue Opere fanno parte di Collezioni private in Italia, all’estero e di alcuni Musei e Fondazioni d’Arte.